Claudia Fanti, giornalista dell’agenzia Adista

Con un toccante omaggio a Bertha Cáceres – la dirigente indigena ed ecologista del popolo lenca uccisa in Honduras lo scorso marzo – e a tutti i militanti minacciati, perseguitati, incarcerati e assassinati per la loro lotta a favore della giustizia e dei diritti dei poveri e della Madre Terra, è iniziata, sulle note di uno struggente canto africano di addio a quanti non ci sono più, la plenaria su Territorio e Natura con cui si è aperto il secondo giorno dei lavori del Terzo Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari.

È stata Vandana Shiva, la celebre attivista e ambientalista indiana che ha dedicato «gli ultimi 30 anni» della sua vita alla difesa dell’«integrità del creato», a introdurre la riflessione, ricordando, da un lato, come le culture di tutto il mondo condividano la convinzione che «gli esseri umani non sono i padroni, bensì i custodi della natura», e ponendo l’accento, dall’altro, sulla grande contraddizione che l’umanità sta oggi vivendo: quella per cui «coloro che sono impegnati a proteggere la Terra sono trattati come criminali, mentre i veri criminali governano». E proprio come “bande criminali” si presentano, secondo Vandana Shiva, i colossi transnazionali che controllano il settore agroalimentare, calpestando le leggi di ogni Paese e facendo scempio della biodiversità del nostro pianeta: attribuire alla Monsanto, leader mondiale nella produzione di Ogm, «un ruolo nel processo della creazione – ha evidenziato l’attivista indiana – non può che essere definita un’oscenità». Come pure è osceno brevettare le sementi, «il primo degli atti di violenza nei confronti del creato», ed è oscena la pirateria con cui «ci viene rubata la nostra conoscenza della biodiversità».

Ma dove ha avuto origine questa follia? Tutto è cominciato, secondo Vandana Shiva, nel momento in cui si è iniziato a considerare la Terra non più come una madre da onorare e proteggere, ma come materia inerte e passiva, un mero deposito di oggetti da sfruttare e da vendere, dimenticando come la nostra vita sia inscindibilmente legata alla qualità del suolo e degli ecosistemi. Non a caso, ha ricordato Vandana Shiva, umano viene da humus, che significa suolo fertile: noi stessi siamo suolo, siamo terra, «siamo il cibo che mangiamo, siamo il sole e l’acqua» e, se ne abbiamo perso la consapevolezza, è solo perché il capitale ci ha alienato dalla nostra casa comune, condannandoci alla «separazione dalla terra», a un’«ecoapartheid». Dall’esilio in cui ci troviamo, siamo chiamati allora a fare «ritorno a casa, al nostro meraviglioso pianeta», riscoprendo i principi della protezione e della cura e assumendo nuovamente la consapevolezza che tutte le specie viventi – quelle specie che, grazie al nostro intervento, «stanno scomparendo a un ritmo 10 volte superiore a quello normale» – hanno un valore in sé, come ben ha ricordato papa Francesco nella Laudato si’, affermando che «Dio ci ha unito tanto strettamente al mondo che ci circonda che la desertificazione del suolo è come una malattia per ciascuno, e possiamo lamentare l’estinzione di una specie come fosse una mutilazione».

Del resto, prendersi cura della terra significa anche proteggere i nostri corpi e la nostra salute: non a caso, «il 75% delle malattie di cui soffriamo è legato all’alimentazione industriale», a quel cibo spazzatura che vorrebbe imporci il settore agroindustriale, lo stesso settore responsabile del 50% circa delle emissioni di gas a effetto serra. Per questo, ha concluso Vandana Shiva, non senza risparmiare una stoccata a quei «preti che bevono Coca Cola e mangiano patatine fritte», «non dobbiamo né produrre né mangiare questi cibi avvelenati».

L’invito a lottare perché la Terra non venga ridotta a una merce è venuto anche da Rosalina Tuyuc, del Coordinamento nazionale delle vedove del Guatemala: «l’acqua, l’aria, la terra, le sementi, i boschi sono -ha affermato – elementi di vita e, come tali, non possono finire sul mercato». E allora, se la vita in pienezza è minacciata dalle imprese transnazionali, dalle grandi dighe, dall’estrazione mineraria, dalle sterminate monocolture, «i figli e le figlie della Terra devono assumersi la responsabilità collettiva di lottare in unità per proteggerla e preservarla». Ed è proprio di questa lotta che hanno parlato Te Ao Pritchard, del movimento delle “Pantere del Pacifico”, di cui fanno parte popolazioni native e migranti della Nuova Zelanda, tutte accomunate dal medesimo di compito di difendere la creazione, e la cartonera argentina Mónica Crespo, rappresentante di quei riciclatori informali di rifiuti che, lottando e resistendo alla persecuzione, hanno infine ottenuto il riconoscimento dello Stato, svolgendo il duplice compito di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori del riciclo e di provvedere alla cura della Terra. Ed è su questa lotta, infine, che si sono confrontati i partecipanti all’incontro nei gruppi di lavoro, interrogandosi sulle strategie e i piani di azione, oltre che sull’imprescindibile sfida dell’educazione all’ecologia, della coscientizzazione e della comunicazione alternativa, attraverso cui rispondere alla feroce offensiva del capitale contro i beni comuni dell’umanità.

 

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