Qualche anno fa ho avuto la fortuna di partecipare ad una missione del Parlamento Europeo che doveva verificare l’andamento delle elezioni in Venezuela. Per mia natura sono sempre stato diffidente verso i populismi di ogni genere e quella mi sembrava l’occasione giusta per verificare qual’era la sostanza che stava sotto le dichiarazioni, talvolta roboanti e sopra le righe, rilasciate da Chavez. Vedere cosa il presidente aveva fatto a casa sua, dove aveva il potere e la responsabilità di decidere, sarebbe stato molto più interessante che ascoltarlo, come mi era capitato, ai Forum sociali mondiali dove parlava ad un pubblico bendisposto nei suoi confronti.
Tornai da quella missione con le seguenti convinzioni: 1) le elezioni si erano svolte in modo assolutamente democratico, in piena libertà e con un accesso ai vari canali televisivi da parte dell’opposizione da far impallidire l’Italia allora berlusconiana. 2) gli oppositori e i sostenitori di Chavez erano fra loro separati da una precisa provenienza sociale: Chavez perdeva nei quartieri ricchi, stravinceva in quelli poveri 3) la priorità del governo erano sotto gli occhi di tutti: scuola e sanità; ebbi l’opportunità di visitare alcuni ambulatori sanitari aperti nelle zone più povere della città dove, fino a quel momento,non avevano mai visto in mezzo a loro un medico. Grazie anche alla collaborazione coi medici cubani erano in atto vere e proprie campagne di educazione alla salute e gli interventi sanitari di base, compresi quelli odontoiatrici, erano disponibili per tutti.
Un governo si giudica dalle priorità concrete poste al centro delle proprie azioni e dalla capacità di realizzarle mantenendo un’ alta partecipazione democratica. Eppure pochi leader hanno subito tanti e continui attacchi dalla quasi totalità dei media italiani come li ha subiti Chavez. Attacchi indiscriminati e aprioristici. Poche sono state le eccezioni.
Riporto qui sotto un articolo di Gianni Minà, un giornalista tra i principali conoscitori dell’America Latina e della realtà venezuelana.Buona lettura, Vittorio
Qualunque sia la valutazione politica che la storia darà a Hugo Chávez, presidente del Venezuela appena scomparso, non c’è dubbio, se si è in buona fede, che il suo rapido passaggio in questo mondo non sia stato un evento banale. Per questo credo stia suscitando una commozione collettiva in tutta l’America Latina, anche in quelle nazioni meno abituate ad approvare le strategie di cambiamento di questo seguace di Bolivar che sognava un continente affratellato.
Mentre scrivo sono già arrivati a Caracas i presidenti di Argentina, Bolivia e Uruguay e pare stia per arrivare perfino Juan Manuel Santos (il presidente della Colombia succeduto all’inquietante Uribe) che, nel rispetto dell’utopia proprio della «Patria Grande», aveva deciso di imbastire un nuovo rapporto con Chávez. Non c’è dubbio che questa realtà quasi rivoluzionaria abbia potuto mettersi in marcia perché in pochi anni si è evoluto il ruolo del Venezuela e si è affermata, nel continente, una politica di hermanidad spinta dal colonnello dal basco rosso, certo di poter affermare i suoi sogni di unità latinoamericana.
Paradossalmente, però, è questo il sentimento che proprio non riescono a capire molti media europei. Non solo perché nazioni latinoamericane come l’Argentina, la Bolivia e l’Ecuador hanno deciso di recuperare, nazionalizzandole, alcune delle proprie ricchezze saccheggiate nel tempo dal “democratico” mondo occidentale; ma perché, per la prima volta nei secoli più recenti è con i paesi dell’America Latina che bisogna fare i conti e, a sorpresa, non con gli Stati Uniti o con le nazioni un tempo colonizzatrici.
Questa situazione però, secondo alcuni analisti europei e del nord del mondo, risulta scandalosa e inaccettabile. Perché, oltretutto, mette in crisi le certezze delle agenzie di rating, della finanza speculativa, di tutti coloro insomma convinti che il mondo è sempre andato così e non può cambiare.
Eppure basterebbe considerare che cosa, in questi anni, ha fatto il Venezuela, oltre ad affrontare e vincere salvo in un caso, 15 consultazioni elettorali o referendum. Se non è democrazia questa, non sappiamo che altro valore dargli.
Quando Chávez ha ereditato il governo del Paese dal presunto socialista Carlos Andrés Péres, c’erano cinque milioni di esseri umani che vivevano nelle villas miserias dove i bambini non andavano a scuola perché i padri non erano nemmeno registrati all’anagrafe. Insomma, cinque milioni di “inesistenti”, in una nazione di 24 milioni di abitanti seduta su uno dei giacimenti petroliferi più importanti al mondo. Era il “Venezuela Saudita”, dove i proventi del petrolio restavano nelle tasche di pochi e di un pugno di multinazionali e dove Carlos Andrés Péres, un giorno, dette perfino l’ordine di sparare su un corteo di cittadini esausti proprio per le politiche del Fondo monetario, massacrando più di mille persone. Ora, nel Venezuela bolivariano del «caudillo populista», gli indigenti sono meno della metà di allora, 49,21% invece del 70%.
Ma all’opposizione non è bastato: «Con quale criterio Chávez continuava a usare le entrate del petrolio in opere sociali invece di investire sul petrolio stesso?».
Non si tratta di rispettare una logica economica, ma di far prevalere un diritto morale. Chi ha stabilito, per esempio, che l’economia neoliberale, anche quando procura disastri come in questa epoca, è la via maestra da continuare a seguire? E non è un problema di ideologia, ma di etica. Lo affermano anche personalità della cultura nordamericana come Sean Penn e Oliver Stone. Jimmy Carter, l’ex presidente degli Stati Uniti, ha inviato per esempio questo messaggio al popolo venezuelano: «(…) il presidente Chávez sarà ricordato per la sua audace ricerca di indipendenza per i paesi latinoamericani, per le sue formidabili capacità comunicative e per il rapporto che stabiliva con chi lo seguiva, tanto nel suo Paese, come all’estero. A questi trasmetteva loro speranza e fiducia nelle proprie capacità. Nei 14 anni del suo governo, Chávez si è unito con altri leader dell’America Latina e dei Caraibi per creare nuove fonti di integrazione e ha ridotto della metà la povertà nel suo Paese».
Così, quando leggo queste dichiarazioni di stima del più etico fra gli ultimi Presidenti degli Stati Uniti, mi domando quale sia il concetto di democrazia dei nostri media. Ho visto che non si sono nemmeno dati la pena, dopo aver sostenuto che non c’è libertà di stampa in Venezuela, di informare – come hanno fatto Ignacio Ramonet di Le Monde diplomatique e il politico francese Jean-Luc Mélenchon – che dei 111 canali televisivi esistenti in Venezuela, solo 13 sono di proprietà dello Stato e con audience di solo il 5,4%. Purtroppo, i nostri intrepidi cronisti si rifanno, per raccontare l’America Latina, quasi esclusivamente al mitico quotidiano spagnolo El Pais, che, proprio l’altra settimana, con assoluto disprezzo delle regole del nostro mestiere, aveva pubblicato in prima pagina (evidentemente augurandoselo) una foto di Chávez intubato e morente risultata però falsa. Il prestigioso quotidiano spagnolo aveva dovuto chiedere scusa pubblicamente e ritirare all’alba tutte le copie già stampate e distribuite.
La verità è che in poco più di dieci anni, l’America Latina è stata capace di dotarsi, per l’intuizione di uomini politici come Lula o lo stesso Chávez, di strumenti capaci di farla competere con realtà come la stessa Comunità Europea. Basti pensare al Mercosur e al Banco del Sur (lanciato nel 2007 con una capitalizzazione di 7 bilioni di dollari da 7 membri: Venezuela, Argentina, Bolivia, Brasile, Ecuador, Uruguay e Paraguay) una scommessa che ha reso più autonoma e indipendente gran parte dell’America Latina. Ma la prova tangibile dei meriti di Chávez e della sua politica, pur fra errori e qualche esagerazione, è forse TeleSur, la televisione satellitare del continente che, l’altra notte, in una diretta no-stop, ha mostrato un dolore collettivo non solo di un Paese, il Venezuela, ma di quella che Ernesto Che Guevara definiva «nuestra Grande America».
«Io non sono io – ha detto una volta Hugo Chávez parlando dei suoi sogni – ma un popolo unito».
Il Manifesto – 07.03.13