Luis Mario Borri – il manifesto 2012.05.03

Non aver elencato, almeno nei titoli di coda del film Diaz, i nomi dei funzionari di pubblica sicurezza processati e condannati, mi ha fatto ricordare il rapporto finale sui desaparecidos in Argentina, presentato all’opinione pubblica senza l’allegato con i nomi dei responsabili dei crimini, e un proverbio: la vipera morde chi è scalzo

Giorni fa ero a casa, a Buenos Aires, e ho letto via Internet sul manifesto (11 aprile) un articolo in cui Vittorio Agnoletto criticava il film sul massacro della scuola Diaz appena uscito nelle sale italiane. La lettura di quell’articolo mi ha colpito doppiamente perché, da una parte, anch’io ero presente a Genova in quei giorni infausti e perché, in merito alla lettura che sui fatti di Genova fa il film, Agnoletto citava una mia riflessione sullo sciagurato intreccio fra verità e giustizia che ha segnato la storia dei crimini commessi durante l’ultima dittatura militare in Argentina.
Il paragone storico non è fuori luogo. Nel 1978, mia moglie Silvia Susana Roncoroni è stata sequestrata, torturata e uccisa da forze paramilitari. Il suo nome fa parte dell’elenco dei 30.000 desaparecidos. A più di trent’anni dai fatti, nonostante i progressi dell’attività giudiziaria, che ha portato in galera centinaia di carnefici, ancora oggi rimangono nell’ombra le responsabilità dei tanti mandanti e complici, non solo di quelli che portavano la divisa. A tal punto resta vivo il vulnus inferto non solo a un’intera generazione di oppositori e dissidenti argentini, ma a tutto un Paese, o per meglio a dire, a tutto un continente, che oggi prende sempre più forza nell’opinione pubblica identificare come dittatura civil-militare quello che, eufemisticamente, i militari genocidi e settori del potere economico, finanziario, politico e della chiesa ad essi contigui si ostinano a chiamare “il processo” (…”di riorganizzazione nazionale”, secondo il lessico golpista).
Dalla fine della dittatura, nel 1983, si è aperto un lungo cammino, che ha visto l’opinione pubblica argentina dividersi fra quel settore maggioritario che aspirava alla giustizia piena, e quello minoritario dei mandanti e dei complici, che ancora oggi cerca di deviarla e di frenarla definitivamente. Gli escamotage assolutori hanno avuto il sostegno di una teoria, ancora oggi sbandierata da qualcuno, conosciuta come la “teoria dei due demoni”. Secondo i suoi sostenitori, la violenza è sorta dalla nascita di un primo demone: la guerriglia sovversiva di sinistra degli anni ’60 e ’70 che, pur motivata da genuine aspirazioni di giustizia sociale – concedono – avrebbe imboccato la strada deleteria della lotta armata. È stata innescata così una spirale di violenza che ha dato origine ad un secondo demone: la repressione da parte delle forze armate e delle forze dell’ordine, come tale crudele, inumana, senz’altro condannabile, ma pur sempre risposta o reazione ad una violenza precedente. La conclusione del teorema è palese: il vero demone è stato il primo; il secondo, invece, si può addirittura paragonare agli antibiotici, che a volte provocano “effetti collaterali” indesiderati, ma che, alla fine, sradicano le malattie. («Chi è senza peccato, scagli la prima pietra», sancirà come corollario la gerarchia ecclesiastica).
Qui si arriva al nocciolo della questione e che prende attualissima valenza: la facoltà repressiva dello Stato (di qualsiasi Stato) è data in delega alle forze dell’ordine; essa è esercitata sotto mandato del potere politico, persino in quei regimi in cui i militari detengono la somma del potere pubblico, poiché quello vero, quello che paga armi, pallottole e divise, incarna precisi interessi economico-politici, che sono quelli che comandano veramente. Le forze dell’ordine sono sempre e soltanto quello: il braccio armato, la guardia pretoriana del potere di turno. Per questo motivo non ci sono spazi per “schegge impazzite” che decidono di testa loro – motu proprio – quando, come e su chi sferrare la repressione.
La violenza statale come “antibiotico”, portata avanti quale strumento sistematico e non come frutto di “schegge impazzite”, è una metafora tratta dalla tragica esperienza argentina, ma che calza come un guanto su quanto accaduto nella scuola Diaz dieci anni fa. In quei giorni Genova è divenuta il banco di prova dell’equazione Genova Social Forum uguale Black Bloc e della necessità del potere politico – non di qualche settore deviato delle forze dell’ordine – di “dare una lezione” a tutto il movimento.
Questi pensieri mi sono riaffiorati a partire dalle critiche che ho avuto occasione di leggere in merito a Diaz (qui in Argentina il film non è ancora uscito e non ho quindi ancora avuto modo di vederlo: non vorrei cadere vittima di preconcetti; se così fosse, me ne scuso). Ma, oltre al commento qualificato di Agnoletto, rafforza il senso di queste righe un’altra testimonianza giornalistica. Giorni fa, grazie ai servizi di Rai International, ho visto la replica della puntata di sabato 14 aprile del programma Che tempo che fa condotto da Fabio Fazio. Magro contributo alla verità e alla giustizia sul massacro alla Diaz hanno offerto in trasmissione il conduttore e il produttore e il regista del film da lui intervistati. Quei pochi minuti televisivi sono stati un concentrato di quanto ho esposto sopra. Le scene del film presentate nel programma – dedicate all’irruzione violenta, spietata, della polizia nella scuola Diaz – mi hanno ricordato la frase con cui una volta postillai un certo film sulla repressione nell’Argentina dei militari: «Fomentare la paura paralizzante facendo sfilare la morte impunita, mascherata da denuncia, è una vecchia tattica per frenare la mobilitazione popolare». Mi ricorda pure il commento di una Madre di Plaza de Mayo di fronte al Cristo crocefisso di una chiesa: «Lo espongono così come avvertimento: vedi cosa ti può accadere se ti ribelli?».
La ciliegina sulla torta l’ha messa il conduttore del programma quando ha domandato agli intervistati (quasi in un sussulto da coda di paglia) perché nel film non si fosse fatto esplicito riferimento alle complicità politiche dello scatenamento della repressione a Genova. Le risposte, giustificate dalla necessità di scartare parte del troppo materiale accumulato e dalla convinzione che il pubblico avrebbe comunque saputo trarre le giuste conclusioni, mi sono apparse vergognose. Non aver elencato, quantomeno nei titoli di coda del film, i nomi dei funzionari di pubblica sicurezza processati e condannati, mi ha fatto ricordare il rapporto finale sui desaparecidos che la commissione d’inchiesta nominata dall’allora presidente Alfonsín presentò all’opinione pubblica argentina: l’allegato con i nomi di migliaia di responsabili dei crimini è rimasto nel fondo di un cassetto (così come fu peraltro fatto in Italia con i materiali documentali relativi ai peggiori crimini nazifascisti commessi sul territorio italiano durante l’occupazione del ’43-’45, occultati per tanti anni nel cosiddetto “armadio della vergogna”).
L’esperienza storica ci insegna che ovunque, e indipendentemente dal regime politico vigente, l’impunità per la repressione riesce soltanto grazie ad un mandato poderoso, e questo, per peso e ampiezza, non può che essere istituzionale. La Storia, in definitiva, ci dice che, per spiegare l’impunità, bisogna indagare sui complici e, soprattutto, sui mandanti. È sempre la ragion di stato, nei fatti nient’altro che la prevalenza assoluta degli interessi economici-finanziari-geopolitici su ogni considerazione attinente alla difesa dei diritti umani, che decide fin dove deve arrivare la verità e, soprattutto, la giustizia.
Come dice un vecchio proverbio del mio Paese: «La giustizia è come una vipera: morde chi è scalzo».

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