Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci

Il 2011, nell’ottica della polizia di stato, è un doppio anniversario. Trent’anni dalla riforma che smilitarizzò il corpo, legalizzando l’attività sindacale; dieci anni da Genova G8, una delle pagine più buie per le forze dell’ordine italiane nel dopoguerra. Ma a leggere l’intervista con Claudio Giardullo, segretario generale del Silp-Cgil, pubblicata sabato scorso dal Manifesto, si percepisce in tutta la sua profondità la grave crisi politica e culturale che ha investito il sindacalismo di polizia.

Una crisi che si somma alla perdita di credibilità che grava sull’attuale vertice di polizia, che mai ha ripudiato gli abusi compiuti durante le giornate di Genova, preferendo nascondersi dietro il muro della copertura politica garantita dalle coalizioni che si sono alternate nell’ultimo decennio (otto anni il centrodestra, due il centrosinistra).

Veniamo all’intervista. Claudio Giardullo parla correttamente di formazione del personale e codici etici da introdurre; in merito a Genova G8 sostiene che il governo dell’epoca intendeva “delegittimare la piazza” e invita quindi a indagare su chi aveva la responsabilità politica dell’ordine pubblico. Ma quando si passa all’eredità politica e morale del tragico luglio genovese, emerge tutta l’impotenza del sindacalismo democratico, di cui Giardullo è un navigato esponente. Sono tre i punti chiave: le dimissioni dei dirigenti imputati (e poi condannati in appello) nei processi Diaz e De Gennaro-Mortola; l’obbligo per gli agenti di indossare codici alfanumerici sulle divise; la legge sulla tortura. Sui tre punti la chiusura di Giardullo è totale e coincide perfettamente con la posizione assunta dai vertici di polizia.

E’ una chiusura che fa impressione, se pensiamo che il Silp-Cgil, nella geografia politica del sindacalismo di polizia, si colloca sul versante di sinistra e di certo nel solco aperto con la riforma del 1981, una riforma ormai svuotata di ogni contenuto.

Giardullo dice che “i governi in questi dieci anni hanno scelto di non intervenire in nessun modo prima della verità processuale definitiva” e sembra sposare questa posizione, che però confligge brutalmente col principio di responsabilità morale e professionale e con la necessità di tutelare la credibilità del corpo di polizia. Il blitz alla Diaz è un fatto storico accertato – nessuno contesta che fu un’irruzione violenta, conclusa con l’arresto di 93 persone sulla base di prove false – e chi vi partecipò con ruoli dirigenti dovrebbe sentirsi investito di una responsabilità morale e trarne le conseguenze, ossia fare un passo indietro. Lo stesso dovrebbe valere per il capo della polizia dell’epoca. Se poi aggiungiamo che alcuni altissimi dirigenti, e lo stesso ex capo della polizia Gianni De Gennaro, sono stati rinviati a giudizio e condannati in appello per gravi reati, ecco che le dimissioni o la sospensione dai rispettivi incarichi diventano una necessità deontologica e politica. Se tutto ciò non bastasse, esiste una normativa europea che indica la via maestra: sospensione dei dirigenti rinviati a giudizio, rimozione in caso di condanna definitiva; nel nostro caso, le sospensioni sarebbero dovute scattare già nel 2004…

Fa impressione, la posizione di Giardullo, perché sembra addirittura dimenticare le conclusioni cui giunse nel luglio 2001 l’ispettore Pippo Micalizio, inviato da Gianni De Gennaro per una breve ispezione sul caso Diaz. Micalizio consigliò al capo della polizia l’avvio di un’azione disciplinare nei confronti dei dirigenti impegnati nella perquisizione, ossia i vari Gratteri, Luperi, Caldarozzi, poi indagati, imputati, assolti in primo grado e condannati in appello, e oggi in ruoli di vertice ancora più importanti di quelli occupati nel 2001.

Micalizio consigliò al capo della polizia anche una piccola ma essenziale riforma: proprio l’introduzione di un codice alfanumerico sulle divise degli agenti, ipotesi che Giardullo rifiuta perché aumenterebbe per gli operatori il “rischio di essere sottoposti ad attacchi aggressivi e violenti”. I codici di riconoscimento sono in realtà una garanzia sia per i cittadini, che in caso di bisogno possono identificare e denunciare gli autori di abusi di potere, sia per gli agenti di polizia che si trovassero a dover eseguire ordini aberranti. Pensiamo alla Diaz. La mattanza fu così violenta perché gli agenti-picchiatori agivano con la garanzia dell’impunità: si sarebbero comportati allo stesso modo sapendo d’essere individuabili attraverso i codici sulle divise?

Quanto all’ultimo punto, la legge sulla tortura, è davvero scoraggiante constatare che il Silp-Cgil si allinea sulla trincea del no, mostrando così una grave distanza da quel filone politico-culturale che coltiva l’espansione dei diritti umani. L’Italia si impegnò nel lontano 1988 a introdurre il reato di tortura nel proprio ordinamento penale ma è tuttora inadempiente. L’anno scorso la sentenza d’appello sugli abusi nella caserma di Bolzaneto rimarcò la grave carenza normativa, che aveva obbligato i magistrati a contestare reati “minori”, come l’abuso d’ufficio e la violenza privata, puniti con pene lievi e quindi caduti in prescrizione, mentre è ben noto che gli standard europei sulla tortura prevedono pene consistenti e in alcuni casi anche la non prescrittibilità del reato. Ebbene, all’indomani di quella sentenza, il nostro governo ha dichiarato, come mai era avvenuto nei 22 anni precedenti, di ritenere superflua l’introduzione del reato di tortura. Una posizione estremistica, al limite della provocazione.

Poiché le posizioni di Claudio Giardullo sono condivise, a quanto se ne sa, da quasi tutto il sindacalismo di polizia, possiamo ben dire che il doppio anniversario della polizia di stato – riforma dell’81, G8 del 2001 – segna un grave arretramento generale: rispetto a dieci e trenta anni fa, oggi abbiamo meno garanzie per i cittadini e meno credibilità per le forze di sicurezza, insomma una democrazia peggiore.

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