Un articolo molto interessante di Gavino Maciocco sull’importanza di difendere il diritto alla salute contro gli attuali tentativi di distruggere il Servizio Sanitario Nazionale.

La riforma costituzionale proposta dal Governo Renzi non tocca l’art. 32, ma è la politica dello stesso governo che ha reso il diritto alla salute sempre più estraneo dalla realtà quotidiana della popolazione e in particolare di quella più povera. Domina l’idea thatcheriana che la società non esiste, ma soltanto gli individui, così gli interventi si basano su un individualistico “fai-da-te” affidato a bonus, contributi, benefici occasionali e, per chi può, alle assicurazioni.


Saluteinternazionale.info si presentò ai suoi lettori, nel gennaio 2009, con un post  in cui si citava una riflessione di Amartya Sen sul concetto di salute come diritto umano.  “La salute – si chiedeva il premio Nobel per l’economia – può essere considerata un diritto in assenza di una legislazione vincolante?” [1].

Secondo Jeremy Bentham (1748-1832) la risposta è no. Bentham infatti considerava un “non senso” la dichiarazione francese dei diritti dell’uomo del 1789 perché il diritto per essere tale deve essere legiferato, deve cioè essere “figlio della legge”. Ma – osserva Sen – c’è una lunga tradizione di pensiero sul diritto come etica sociale: le basi morali che una buona società deve avere. Infatti quando la dichiarazione americana d’indipendenza invocava “certi inalienabili diritti” che ogni persona deve avere, i diritti umani erano visti non come “figli”, bensì come “genitori” della legge. Nel considerare la salute come diritto umano c’è la chiamata all’azione per la promozione della salute della popolazione, nello stesso modo con cui gli attivisti del 18° secolo lottarono per la liberazione e la libertà. Un diritto umano – prosegue Sen – può essere “genitore” non solo della legge, ma anche di altri modi per sostenere la causa di un determinato diritto. Anche la realizzazione della prima generazione dei diritti (come la libertà religiosa, il diritto a non essere arrestato arbitrariamente, a non essere violentato o ucciso) dipese non solo dalla legge, ma anche dalla discussione pubblica, dalla denuncia, dal controllo e dal lavoro sociale.

Il diritto alla salute pretende analoghi vasti interventi, che vanno ben oltre una (pur importante) buona legislazione sanitaria. Ci sono azioni politiche, sociali, economiche, scientifiche e culturali che noi possiamo prendere per fare avanzare la causa della buona salute per tutti. Nel considerare la salute come un diritto, noi riconosciamo la necessità di un forte impegno sociale per la buona salute. Ci sono – conclude Sen – poche cose così importanti come questa nel mondo contemporaneo.

Questa discussione è di enorme attualità, a parti invertite. La domanda che ci si dovrebbe porre oggi in Italia è infatti questa: “Il diritto alla salute può essere negato, pur in presenza di una legislazione vincolante?”.

La “legislazione vincolante” la conosciamo bene, è l’art. 32 della Costituzione: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. “Con queste parole – afferma Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale – si introduce la salute nella tavola dei diritti fondamentali che regolano la nostra vita in comune” (…) “Parole semplici, dunque: un diritto, per di più fondamentale per ciascuno di noi; ed è l’unica volta che in cui la Costituzione utilizza questa qualificazione”. Aggiunge ancora G.M. Flick: “L’affermazione unitaria del bene-salute da parte della Costituzione – nella duplice componente individuale e collettiva; e nella confluenza fra entrambi gli interessi che guardano ad essa – induce a configurare la salute, in termini giuridici, come un un diritto che si risolve in uno status, una condizione di benessere psico-fisico, un’espressione di libertà e di eguaglianza nel rapporto con gli altri, una componente essenziale della propria identità”[2].

La riforma costituzione proposta dal Governo Renzi non tocca l’art. 32 della Costituzione, ma è la politica di questo governo, e dei governi precedenti, che ha reso quell’articolo sempre più estraneo dalla realtà quotidiana della popolazione e in particolare di quella più povera (che notoriamente è anche quella più malata). Circolano in questi giorni dati molto allarmanti sul numero di persone che rinunciano a curarsi.  Prendiamo il dato più solido, anche se non recentissimo, quello dell’Istat, stratificato per fasce di reddito, confermato dall’OCSE (Figura 1). Oltre il 7% della popolazione (4,2 milioni di cittadini) rinuncia a curarsi a causa degli alti costi, dei tempi d’attesa troppo lunghi, dell’eccessiva distanza da percorrere. Lo stesso grafico mostra come in Italia le diseguaglianze sociali nell’accesso alle cure siano spaventose: la nostra situazione è infatti sovrapponibile a quella greca.

Figura 1.  Bisogni di cura non soddisfatti in relazione al reddito. Paesi OCSE. 2013[3].

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Il governo sta deliberatamente affossando il Servizio sanitario nazionale – e di conseguenza demolendo di fatto anche l’art. 32 della Costituzione – per due ordini di motivi.

Il primo, di tipo puramente ideologico,  ben spiegato da Stefano Rodotà su Repubblica del 17 giugno[4].  Domina l’idea thatcheriana che la società non esiste, ma soltanto gli individui, così gli interventi si basano su un individualistico “fai-da-te” affidato a bonus, contributi, benefici occasionali. Così l’attenzione si restringe ai diritti “libertari” (vedi legge sulle unioni civili) e ignora i diritti sociali: diritto alla salute, al lavoro, all’istruzione, alla casa.

Il secondo di tipo politico-strategico: il cambiamento da sistema universalistico finanziato dalla fiscalità generale a sistema basato sulle assicurazioni, attuato attraverso il cavallo di Troia delle assicurazioni integrative, come abbiamo più volte denunciato su questo sito [5,6] e come spiega magistralmente Chiara Saraceno in un post su MicroMega [7]. “Si tratta – scrive Saraceno – di una opinione che sta ottenendo una diffusa popolarità e che sta alla base anche di progetti, insieme di ricerca e di policy, che vanno sotto il nome di “secondo welfare”. L’idea è che la diffusione delle assicurazioni sanitarie non solo renderebbe accessibile la sanità privata anche a chi, pur con un reddito non basso, non se ne potrebbe permettere i costi di mercato. Alleggerirebbe anche la pressione sulla sanità pubblica, riducendo quindi le liste d’attesa a favore di chi non può permettersi di rivolgersi al privato e neppure di pagare una assicurazione. Un ragionamento accattivante, che lascia tuttavia nell’ombra due importanti questioni. In primo luogo, le assicurazioni private fanno un’opera importante di selezione sia di ciò che coprono sia dei clienti. Per avere un buon livello di copertura bisogna o pagare premi alti, o appartenere ad aziende o associazioni che hanno convenzioni con aziende sanitarie di mercato. La seconda selezione riguarda clienti potenzialmente rischiosi: oltre una certa età non è possibile assicurarsi, oppure si è depennati o retrocessi (con copertura inferiore) dall’assicurazione in essere. Lo stesso avviene se si è avuta una malattia grave e che presenta potenziali rischi per il presente e il futuro. Chi ha di fatto o potenzialmente più bisogno di cure sanitarie adeguate e tempestive è quindi più probabile non possa assicurarsi, anche se ne avesse i mezzi economici. Chi paga una assicurazione sanitaria integrativa, specie se a copertura (quindi a premio assicurativo) elevato, inoltre, alla lunga può chiedersi perché mai dovrebbe finanziare, tramite le tasse, anche la sanità pubblica che non usa. Già ora si possono dedurre il premio assicurativo e le spese sanitarie dall’imposta sui redditi, riducendo quindi il gettito fiscale. Ma se le persone abbienti fossero spinte ad assicurarsi in massa, potrebbero chiedere sconti ben più sostanziosi, riducendo quindi la disponibilità per il finanziamento della sanità pubblica, lasciata ai ceti economicamente più modesti e con minore potere di pressione rispetto a qualità e adeguatezza”.

Torniamo alla domanda: “Il diritto alla salute può essere negato, pur in presenza di una legislazione vincolante?”.  O ancora: “Si possono impunemente calpestare i diritti sociali, senza pagarne le conseguenze politiche, soprattutto se chi lo fa, il PD, si dichiara di sinistra?”. Le periferie di Roma e di Torino, alle recenti elezioni amministrative, hanno detto di no, che non è possibile. Ma lo schiaffo al partito di governo, e alle sue politiche thatcheriane e regressive, non è arrivato solo dalle aree in cui più evidente e acuto è il disagio sociale. La perdita di consensi non proviene infatti solo dalle periferie delle grandi città.  Il PD in Toscana ha perso le elezioni in tutti i comuni (tranne uno) dove si votava: da un capoluogo come Grosseto a un comune come Sesto Fiorentino, dove sono in gioco questioni ambientali di primaria grandezza.  Qui in Toscana tra gli elettori che hanno voltato le spalle al PD ci sono anche gli insegnanti che non hanno accettato l’imposizione della “buona scuola”, ci sono gli infermieri e i medici del servizio pubblico che vedono il loro lavoro perdere in qualità e sicurezza a causa di assurde ristrutturazioni delle asl e di continue riduzioni di personale.

Queste elezioni amministrative hanno portato alla ribalta le “periferie”, come simbolo di diseguaglianze sociali sempre più acute, in un paese come il nostro che è tra i più “diseguali” in Europa[8]. “Molti commentatori – osserva Stefano Rodotà sulla Repubblica del 24 giugno [9] – in questi giorni insistono sui guasti drammatici della diseguaglianza, senza dire una parola sul fatto che questa diseguaglianza non nasce da dinamiche incontrollabili, ma è l’effetto di politiche deliberate, perseguite con determinazione pari all’arroganza”.

Le scelte politiche fatte in questi due anni hanno spesso dimenticato di coniugare la giustizia sociale al cambiamento”, scrive in una lettera aperta a Matteo Renzi, Ezio Lattuca, 28 anni, il più giovane parlamentare PD. “Il risultato è quello che nelle periferie i cittadini che soffrono di più l’insicurezza a partire da quella economica, si sono rivolti ad altri. ‘Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra diseguali’ diceva un parroco delle tue parti. E invece così abbiamo fatto con i bonus per i neonati e per i diciottenni, così abbiamo fatto eliminando la tassa sulla prima casa anche a chi, come me e come te, pur non vivendo in un castello, potrebbe tranquillamente permettersi di pagarla. Come è possibile spiegare queste scelte ad un ragazzo che rinuncia a studiare per le difficoltà economiche della propria famiglia o ad una giovane coppia che la casa di proprietà non ce l’ha e che fatica a pagare l’affitto?!”[10].

Bibliografia

  1. Amartya Sen. Why and how is health a human right? Lancet 2008; 372:210
  2. Flick GM. La salute nella Costituzione italiana, in “Centenario della costituzione degli Ordini dei medici”. Fnomceo, Roma, 2010.
  3. Rielaborazione grafica tratta dalla rivista Salute e Sviluppo, n. 73, Giugno 2016.
  4. Dalle urne la società che vogliamo di Stefano RodotàLa Repubblica, 17 giugno.
  5. Maciocco G. La parabola della rana bollita. Saluteinternanzionale.info 25.05.2015
  6. Maciocco G. Assalto finale al servizio sanitario nazionale. Saluteinternanzionale.info 26.10.2015
  7. Chiara Saraceno. Le disuguaglianze nella salute. Chiara Saraceno, da Repubblica, 09.06.2016 sul blog-micromega.
  8. Di Tullio I. Crisi economica e disuguaglianze sociali. Neodemos
  9. Stefano Rodotà. Quegli equivoci sulle riforme. da la Repubblica, su Dirittiglobali.it 24.06. 2016
  10. “Caro segretario, così non va”: il deputato più giovane accusa Renzi
    La Stampa, 23.06.2016

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