Cosa accomuna «Romanzo di una strage», il film su Piazza Fontana, e «Diaz», il film sul G8 di Genova? L’assenza del movimento, che è stato la ragione di fondo di entrambi gli eventi. Una polemica con Giordana e Vicari
Credo che abbiamo un problema. Noi chi? Quelli che in vario modo e in varie epoche hanno partecipato a tentativi di cambiare questo paese. Ma in generale, direi, qualunque cittadino. Il problema è stato enunciato da Goffredo Fofi in una recensione a Romanzo di una strage, il film di Marco Tullio Giordana su Piazza Fontana: «Ci si chiede dunque come mai il cinema e la televisione italiani non siano in grado di proporre altro che panettoni da povero pamphlet giornalistico, al posto di un buon cinema». Vale per il film su Piazza Fontana ma vale anche per il film che si occupa di un altro strappo nella storia di questo paese, Diaz.
Uno esce dalla visione di Romanzo di una strage stralunato: se ha l’età per aver vissuto in quegli anni, si chiede che ne è stato dell’immenso lavoro di denuncia, inchiesta, documentazione che – al di là del nulla cui è precipitata la magistratura, come si è ripetuto puntualmente qualche giorno fa per la strage di piazza della Loggia, Brescia ’74 – ha fornito una conclusione inoppugnabile sulle responsabilità politiche del 12 dicembre. Se invece non ha quell’età, lo spettatore avrà ottenuto informazioni degne di un buon depistaggio.
Valerio Mastandrea è bravissimo, nel ruolo del commissario Calabresi, come Pierfrancesco Favino in quello di Pinelli. Il fatto che è il Calabresi e il Pinelli del film non c’entrano niente con il commissario che inseguì la “pista anarchica” e con l’anarchico che precipitò da una finestra mentre veniva interrogato dal commissario. Ha scritto Corrado Stajano, da cronista che quella sera era nella questura di Milano: «Il commissario Luigi Calabresi è nel film il vero protagonista; un eroe, è stato detto, l’uomo che aveva capito la verità. Nel 1972 sarà la vittima innocente dello spirito di violenza, ma quella notte in questura, davanti a cinque giornalisti, il suo comportamento non fu diverso da quello dei suoi superiori». E Piero Scaramucci, che all’epoca era redattore del Gazzettino padano, ha scritto a sua volta: «Il commissario Luigi Calabresi, descritto come paladino, fino al donchisciottismo, di una legalità impraticabile, figura difficile da far coincidere con la verità storica sapendo che aveva avallato la falsa versione di un Pinelli suicida per disperazione e che dopo, anche mesi dopo, la morte dell’anarchico il suo ufficio continua a indagare non sulle sue responsabilità nella strage – cui già allora nessuno crede – ma su possibili comportamenti equivoci nel passato che avrebbero potuto in qualche modo comprometterne la figura e forse giustificare l’accanimento poliziesco di cui fu vittima».
Il figlio di Calabresi, Mario, oggi direttore de La Stampa, ha avuto modo di lamentarsi del fatto che la durissima campagna (specie di Lotta continua) contro suo padre nel film non si vede abbastanza. Può darsi. Resta però il fatto che quel funzionario dello Stato e custode dell’incolumità del fermato violò i termini del fermo preventivo di Pinelli, e che lui e la sua squadra erano nella stanza da cui una persona innocente precipitò e morì. Il regista del film, Giordana, ha dichiarato di essere «convinto» che Calabresi, nel momento in cui Pinelli cadde o fu spinto di sotto, non era nella stanza. Ma è contraddetto dalla testimonianza di un compagno di Pinelli, Valitutti, seduto di fronte a quella porta e in attesa a sua volta di essere interrogato, che disse: non ho visto Calabresi uscire di lì. Adriano Sofri, nel suo 43 anni, libro scaricabile dalla rete, cita un lapsus del giudice D’Ambrosio, quello che sentenziò l’ennesima assoluzione sommaria dei poliziotti, il quale, in una intervista di molti anni dopo, dice di aver avuto «la prova» che Calabresi non era nella stanza, ossia il fatto che Valitutti l’aveva visto uscire. Ma l’anarchico aveva detto il contrario.
Siccome di biografie personali qui si parla, anche, con affetto vorrei dire a Mario Calabresi che comprendo bene i suoi sentimenti: mio padre, anch’egli poliziotto, maresciallo della polizia stradale, scomparve in modo drammatico quando io avevo 12 anni. Non fu ucciso, morì a causa dall’incendio della caserma. Ho dovuto fare i conti con questa assenza, e penso anche che l’assassinio di Calabresi fosse un orrore, con ogni probabilità opera – come il film suggerisce – di chi lo giudicò una figura pericolosa, scomoda, e non di quelli che sono stati infine condannati, cioè Sofri e i suoi compagni (più il molto volonteroso Marino). Ma è comunque grottesco che in quel grande trauma collettivo, in quel complotto ordito da chi voleva spezzare l’insorgenza sociale di quel periodo, proprio Calabresi divenga l’eroe positivo della storia, l’uomo che scopre i depositi di armi ed esplosivi di Gladio e a cui Federico D’Amato, capo del fosco Ufficio Affari riservati del Viminale, espone l’altrettanto grottesca teoria delle due bombe. Come ha raccontato Giorgio Boatti, «la pubblicità del film, almeno così come l’ho vista ieri in rete, poi da oggi è scomparsa, alternava questi due moduli: uno dice “La bomba di piazza Fontana l’hanno messa i rossi? Piazza Fontana. La verità esiste”. L’altro afferma: “La bomba di piazza Fontana l’hanno messa i fascisti? Piazza Fontana. La verità esiste”».
La teoria delle due bombe, smontata pezzo a pezzo con mite durezza da Adriano Sofri, è stata proposta da un libro di tale Cucchiarelli, secondo cui fu proprio Valpreda a collocare una bomba – «leggera», dimostrativa – cui i nazisti manovrati dai servizi (e dagli americani, dai greci, da chissà chi) affiancarono una seconda bomba, quella letale. Rinvio al testo di Sofri per comprendere quanto cervellotica sia questa tesi. Lo è tanto che nel film la teoria fa una capriola: una bomba l’hanno messa i fascisti “buoni”, l’altra i fascisti “cattivi”. La pezza, si dice in questi casi, è peggiore del buco. Ma nel buco è nel frattempo precipitata la consapevolezza di come in quell’epoca una parte dello Stato, le bande fasciste e neonazi, i cinici alleati “occidentali” vollero aggredire la più grande ondata di ribellione, cioè di costruzione di civiltà (lo Statuto dei lavoratori, che ora la signora Fornero vuole silurare, è datato 1970, per dirne solo una), che l’Italia avesse conosciuto dalla Resistenza.
Ma il punto è proprio questo: in quel film il contesto, la Milano operaia e studentesca, il paese in sommovimento, non ci sono. Solo un rumoroso corteo nella scena iniziale, finito presto in scontri con la polizia e nella morte dell’agente Annarumma, le cui cause restarono in ogni caso molto dubbie. E se si fa scomparire il movente, direbbe qualunque scrittore di gialli, l’assassinio, in questo caso multiplo e seriale (le stragi si susseguirono fino ai primi anni ottanta), diventa incomprensibile, al più opera di un pazzo (ma anche i pazzi hanno le loro ragioni, come è noto).
Fofi si chiede come mai non si sia capaci di produrre film civili all’altezza della nostra storia cinematografica. La risposta che mi darei è che chi produce i film è del tutto indifferente alle ragioni sociali e politiche dei pezzi di società che a cicli, venendo respinti e tornando a premere, hanno urtato contro il muro dei poteri. Nemmeno nel film di Vicari sulla Diaz si intravede il movimento: lui continua a ripetere, nelle decine di interviste in cui ricopre di contumelie Vittorio Agnoletto, colpevole di aver sollevato critiche, che «Agnoletto si sente in colpa per come lui e alcuni altri dirigenti del movimento hanno gestito tutta la vicenda prima, durante e dopo». Ci voleva «il servizio d’ordine», aggiunge. E questa è appunto la dimostrazione di come Vicari non abbia capito un accidente di quel movimento, che non aveva “dirigenti” ma un complicato organismo, che si reggeva su un precario equilibrio, il Genoa social forum, di cui Vittorio era il portavoce (cioè il «leader», pensa subito uno come Vicari), il quale era convinto – pensa un po’ – che i «servizi d’ordine» erano un’esperienza da non ripetere, dato che in passato avevano fatto prevalere una logica militare nelle manifestazioni di strada. E che, in ogni caso, ad assicurare l’ordine dovevano essere le persone in divisa i cui stipendi paghiamo tutti noi e le cui azioni devono essere regolate dal rispetto dei diritti dei cittadini. Forse Vicari pensa che avremmo dovuto in quei giorni dichiarare guerra allo Stato, schierando i nostri “servizi d’ordine”? Si rende conto di quanto arcaica sia questa ossessione, nell’epoca degli indignados e degli occupy, movimenti radicalmente democratici e non violenti che hanno in Genova 2001 una loro forte radice?
No, non se ne rende conto. Perciò lui e il suo produttore, Procacci, vanno ripetendo formule come «né con la polizia né con Agnoletto» (soave titolo de Il Fatto Quotidiano su una intervista a Procacci). Ma cosa ha scritto Vittorio di tanto urticante? Sotanzialmente che nel film (in questo come in quello su Piazza Fontana, aggiungo io) non si capisce nulla della ragione di fondo di tutti gli eventi. E questa ragione è il movimento. E, aggiunge Agnoletto, oltre al capo non c’è nemmeno la coda, ovvero i politici e i capi della polizia che organizzarono la “macelleria messicana”. Sui secondi ha già detto la magistratura in due gradi di giudizio (e Vicari obietta: ma se la Cassazione assolverà De Gennaro e soci a quel punto «il film è morto»), ma hanno detto anche inchieste e film indipendenti (come quello di Davide Ferrario). Sui secondi pesa una responsabilità politica, che non è meno grave di quella giudiziaria. A questo, a parte gli insulti (Agnoletto è «in totale malafede», «un uomo isolato che deve urlare», uno «Zdanov»), Procacci e Vicari rispondono cose come «non potevamo metterci tutto» o «ci siamo limitati a raccontare i fatti». Ma il fatto ad esempio che il ministro della giustizia di allora, il moralizzatore della Lega Castelli, abbia fatto visita alla caserma di Bolzaneto nelle ore in cui si praticavano le torture che il film mostra, era un’occasione preziosa – unità di tempo e di luogo che non avrebbe costretto, come nel caso di Piazza Fontana, a usare Aldo Moro come il maestro di Non è mai troppo tardi – anche solo per incidere una tacca, per così dire, suggerireallo spettatore il nesso decisivo che invece manca.
Così che paradossalmente la visione del pestaggio sanguinoso e delle torture, «la più grande sospensione dei diritti in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale», come recita la pubblicità del film citando Amnesty, diventa un evento in sé privo di ragioni, più o meno come la bomba (anzi le due bombe o tre) di Piazza Fontana. La «più grande sospensione» è tale non solo perché i poliziotti hanno voluto il sangue, ma soprattutto perché fu lo Stato a spingerli.
Forse è proprio vero, come dice Adriano Sofri, che siamo precipitati nel «medioevo della fiction». Piero Valesio, sul sito de Il Fatto, dopo aver scritto che il film di Vicari andrebbe mostrato nelle scuole proprio per l’urto delle immagini del massacro alla Diaz, conclude: «Forse che i massacratori della Diaz e i torturatori di Bolzaneto arrivavano da Marte o dalla Polinesia? (…) Quali politici avallarono prima la scelta e coprirono dopo i responsabili? Che ruolo ebbe quello stesso Fini che anni dopo si sarebbe accollato, pure con dei meriti, il ruolo di difensore della dignità dello Stato? (…) Di tutto ciò nel film non c’è traccia. Diaz è un film duro, meritorio ed efficace ma scolastico e limitato. Come del resto Agnoletto ha sottolineato sul Fatto di oggi». È come se nello splendido I cento passi, il film di Giordana su Peppino Impastato, fosse scomparso il mandante, il capomafia.
Ecco dunque il problema che abbiamo noi cittadini. Che la ragione delle insorgenze sociali non riesce più a penetrare nelle stanze in cui si scrivono le sceneggiature o sui set dove si girano i film. Dove prevalgono altri obiettivi: innanzitutto, quello di stupire o impressionare a prescindere (le due bombe, gli schizzi di sangue) e, in generale, di non disturbare quelli che contano, specialmente se sono zar dei servizi segreti, come De Gennaro. Quel che ne esce, consapevoli o meno che se ne sia, è una specie di revisionismo storico sommario e dilettantesco, in cui la storia del nostro paese, e dei grandi movimenti che l’hanno attraversata, diventa un’incomprensibile mischia in cui si perdono i rispettivi ruoli nella tragedia e i cattivi o sono buoni oppure si sono assentati.
L’ultima domanda che mi faccio è: perché, su Genova 2001, attorno a Vittorio Agnoletto si è creato, dal lato di quelli che erano con lui a non organizzare servizi d’ordine, un opaco silenzio?

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